sabato 17 agosto 2019

Scompare per un malore Gimondi, tra i più grandi corridori italiani di sempre. Una vita scandita dalla rivalità con Merckx

Il ciclismo piange uno dei suoi simboli, aveva 76 anni. È stato uno sette atleti ad aver vinto in carriera Tour, Giro e Vuelta

GIORGIO VIBERTI
Se n’è andato uno dei più grandi corridori di sempre. Felice Gimondi, bergamasco di Sedrina, è morto improvvisamente in seguito a un malore mentre stava facendo il bagno nelle acque di Giardini Naxos, in Sicilia, dove era in vacanza con la moglie Tiziana. Vani tutti i tentativi di soccorrerlo e di rianimarlo: Gimondi è morto nel tardo pomeriggio di ieri. Il prossimo 29 settembre avrebbe compiuto 77 anni.
Ciclista di talento e di grande scaltrezza, era stato professionista per 15 stagioni, dal 1965 al 1979, vincendo praticamente tutto grazie a doti non comuni sul passo, in montagna, a cronometro e anche nelle volate ristrette. Gimondi è uno dei sette corridori di sempre ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri: il Giro d’Italia nel 1967, 1969 e 1976 (con 9 podi in totale: record), il Tour de France nel 1965 e la Vuelta di Spagna nel 1968. Ai quali aggiunse però tanti exploit di un giorno, fra i quali alcuni prestigiosissimi: una Sanremo, una Roubaix, due Lombardia e soprattutto il Mondiale di Barcellona 1973, quando in una volata a quattro riuscì a battere il velocista fiammingo Maertens, lo spagnolo Ocaña e il Cannibale belga Merckx.

Aveva dato le prime pedalate da ragazzo e quasi senza volerlo, nella sua Sedrina dove la mamma faceva la postina e ogni tanto chiedeva al piccolo Felice di aiutarla per le consegne in bicicletta. Come Coppi, che aveva scoperto passione e talento lavorando da garzone macellaio e portando carne e salami di casa in casa, così il vice postino Gimondi convinse i genitori che valeva la pena dargli fiducia con il ciclismo: se poi avesse fallito, si sarebbe adattato a rilevare il mestiere di trasportatore che faceva suo padre. Non ce ne fu bisogno, perché dopo numerose vittorie da dilettante, fra le quali il Tour de l’Avenir 1964, l’anno seguente arrivò il giorno del debutto nel ciclismo professionistico e ancora una volta fu il caso a indicargli la via. Dopo aver aiutato il capitano Adorni a vincere il Giro, finendo comunque sul podio (terzo), Gimondi benché giovanissimo fu chiamato in extremis dalla Salvarani per fare anche il Tour, dopo che uno dei gregari già designati si era ammalato. «Tranquillo, mi aiuti per una settimana e poi torni a casa» gli disse Adorni, che alla fine lo convinse ottenendo per lui anche un aumento dell’ingaggio. Fu invece Adorni a tornarsene dopo pochi giorni in Italia per un problema fisico, dopo che invece Gimondi aveva già preso la maglia gialla alla terza tappa. Felice la mollò soltanto per un paio di frazioni a metà Grande Boucle, poi se la riprese e la portò fino al Parco dei Principi di Parigi, battendo in classifica il favorito ed eterno secondo Poulidor. Non aveva ancora 23 anni, più o meno la stessa età di Egan Bernal, l’ultimo vincitore del Tour. «Mi ero segnato su un guantino i nomi dei velocisti più pericolosi e sull’altro quelli dei rivali per la classifica» ci aveva confessato non molto tempo fa, per spiegarci come in fondo lui a quel Tour credeva fino dal primo giorno.
La sua grandezza

Altro che semplice comparsa! Era questa la grandezza di Gimondi: intelligenza, astuzia e cura dei minimi particolari, oltre naturalmente a classe e talento cristallini. Un solo rammarico nella sua stupenda carriera: essere finito nella stessa era di Merckx il Cannibale. «Ma proprio grazie a Eddy le mie vittorie valevano di più, perché lui è sempre stato superiori a tutti. La sua schiena e la sua nuca per me non avevano segreti, le conoscevo a memoria perché stavo sempre a inseguirlo». Ma non è mai stata sudditanza, la sua, e tanto meno vergogna, se mai la consapevolezza di potersela giocare con il più forte di sempre. Per il quale Gimondi aveva enorme rispetto e persino una forma di venerazione, tanto che quando Merckx fu squalificato per un controverso caso di doping mentre stava dominando il Giro d’Italia 1969, Felice la mattina seguente non volle indossare la «sua» maglia rosa. «Non mi appartiene, è di Eddy». Proprio Merckx ieri, in lacrime e disperato, ha tributato l’ultimo saluto al suo splendido rivale di mille battaglie: «Sono distrutto. Stavolta sono io a perdere. Addio caro amico, non ti dimenticherò mai».

LASTAMPA.IT

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