domenica 18 agosto 2013

È in Ossola la “clinica” del Duomo di Milano

Lino Rossini
Artigiano di Candoglia costruisce e restaura le guglie bianche

FRANCESCA ZANI
MERGOZZO
 
Dalle mani di Lino Rossini prendono forma le guglie del duomo di Milano. Nel suo laboratorio di Candoglia, frazione di Mergozzo, si respira ancora l’aria delle botteghe artigiane di una volta, la porta è aperta ai visitatori e per terra riposano le nuove guglie che circonderanno il basamento su cui è poggiata la Madonnina d’oro, simbolo di Milano, in attesa di essere decorate a colpi di scalpello. L’artista, classe 1941, con il figlio Nicolao, porta avanti con orgoglio questo mestiere, per passione e con grande cura dei dettagli che rendono unica la lavorazione artigianale.  
 
Cresciuto a contatto con la natura in una famiglia di contadini e abituato a trascorrere l’estate da bambino all’alpe Cortevecchio portando al pascolo le mucche, si trovò proiettato nella capitale lombarda per affinare il mestiere nei cantieri del duomo. Rossini imparò da ragazzo il mestiere dello scalpellino nella scuola di avviamento professionale «Contessa Tornelli Bellini» per marmisti e ornatisti, nata nel 1957 a Candoglia, sulla strada che porta a Mergozzo, dove ora sorge il laboratorio che l’artigiano aprì negli Anni 80 ed è visibile la targa che ricorda l’istituto, ai piedi della cava che da più di seicento anni fornisce il marmo per la manutenzione del duomo.  

 
Il periodo milanese di apprendistato durò dieci anni. «Ecco i cavatori, dicevano in tono di sfida i lombardi quando ci vedevano arrivare - racconta con un sorriso Rossini -. L’impatto con la grande città è stato forte, ma lì, osservando, ho appreso l’arte dagli anziani: solo così è possibile raggiungere l’eccellenza. Per me è diventata una sfida, i maestri erano gelosi del mestiere e dovevi arrangiarti».  
 
Scalpello, aria compressa, martello pneumatico, squadra, compasso, matita e occhio sono gli alleati di Rossini durante la lavorazione delle guglie, alte fino a quattro metri e plasmate a piccoli blocchi poi assemblati. «Dopo otto ore di lavoro nei cantieri del duomo, la sera andavo al Castello Sforzesco per apprendere l’arte della scultura. Il marmo di Candoglia è composto per il 98 per cento da carbonato di calcio, che con i raggi del sole si deteriora, perciò è necessario il restauro continuo delle parti esterne e il lavoro è sempre consistente».  
 
Il marmista partito da Ornavasso vanta con orgoglio la sua origine walser e a chi gli chiede che cosa provi di fronte al duomo, sapendo di esserne in parte l’artefice, risponde con umiltà: «Ogni volta resto sorpreso nel notare i dettagli nascosti, in punti in cui nessuno guarda, ma il vero artigiano ricerca la precisione, anche dove l’occhio non arriva. La cattedrale milanese è un libro scolpito, dove ogni novità viene annotata, anche le più moderne, ma io riconosco ogni mio pezzo come se lo avessi appena realizzato, perché amo il mio lavoro e con il tempo si raccolgono sempre i frutti delle cose ben fatte».
 

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