DOMODOSSOLA - Non è facile la vita di un frontaliere: sveglia puntata al mattino presto, 'viaggi della speranza' spesso in treno conditi da ritardi, cancellazioni e altri problemi per arrivare a destinazione, ore e ore trascorse fuori casa, poco tempo libero a disposizione e un trattamento sul posto di lavoro che non sempre può essere definito paritario. Questi i sacrifici fatti in cambio di una “paga svizzera”. E non sono pochi i lavoratori che ogni giorno varcano il confine italo-svizzero: sono un vero e proprio esercito che, per il Canton Ticino in particolare, rappresenta una risorsa non indifferente in termini di forza-lavoro. Stando ai dati raccolti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, infatti, i frontalieri italiani operano nella grande maggioranza in Ticino (circa il 90 per cento), ma anche nei cantoni turistici dei Grigioni e del Vallese; nei tre cantoni lavorano complessivamente oltre il 99 per cento dei frontalieri italiani. Gli italiani che hanno lavorato nel Canton Ticino sono risultati pari a 47.357 nel 2010, 51.513 nel 2011, 55.484 nel 2012, 58.465 nel 2013 e 61.588 nel 2014. Il numero dei frontalieri italiani in Svizzera è dunque cresciuto nel tempo. L’elaborazione dei dati Ustat consente di avere informazioni anche sulla provincia di provenienza per la Lombardia e per il Piemonte: dai dati emerge che, come prevedibile, sono le province caratterizzate dai più lunghi tratti di confine con la Svizzera quelle che incidono maggiormente sul movimento dei frontalieri verso il Canton Ticino: Varese e Como sono le province di residenza in cui il fenomeno è più consistente (circa 25 mila unità nel 2014 in ciascuna provincia), seguite da quella del Verbano-Cusio-Ossola, con 5 mila unità.
Abbiamo intervistato due giovani frontalieri di Domodossola che fanno parte di quei 5 mila lavoratori provenienti dalla nostra provincia. Si chiamano Carmelo Federico e Jessica Gattoni. Carmelo ha 32 anni, fa il frontaliere da cinque e dal mese di giugno 2015 lavora come tornitore a Mezzovico, nel Ticino. Jessica invece ha 25 anni e da quattro lavora nella fabbrica di orologi a Naters, nel Vallese.
Jessica Gattoni
Jessica si sveglia tutte le mattine, dal lunedì al venerdì, alle 5.30 per prendere il treno che parte da Domodossola alle 6.15 e fa ritorno alla sera sul treno che parte da Briga alle 16.44 o alle 17.44: “Dipende dagli orari che faccio in fabbrica”. Anche lei, come Carmelo, trascorre più di 12 ore fuori casa per via del lavoro, ma quello che più pesa a Jessica è il viaggio, su treni che non sono esattamente confortevoli: “Quest’anno possiamo ancora ritenerci fortunati, non ci sono state particolari sorpresa da parte delle SBB” – racconta – “Ma negli anni scorsi, tra soppressioni inaspettate e ritardi, abbiamo collezionato una serie di disagi al lavoro”. Disagi particolarmente sentiti da parte di chi deve timbrare o di chi deve arrivare a Briga in orario per non perdere la coincidenza. Jessica parla al plurale perché, sul treno che è abituata a prendere, il 90% dei passeggeri sono frontalieri come lei: “Sul treno che parte da Briga alle 17.44 noi frontalieri riempiamo tranquillamente un treno di 5 carrozze”. Lavoratori che arrivano dall’Ossola, ma anche da Gravellona, Omegna, Premosello. Un’immagine che rende l’idea della dimensione del fenomeno nella nostra provincia.

Carmelo Federico
Carmelo lavora su due turni differenti, che variano di settimana in settimana. Quando lavora al mattino si svegli alle 3.30, parte da casa alle 4 per arrivare a Mezzovico alle 5.30; il turno finisce alle 13.30 e lui è di ritorno alle 15. Invece, quando lavora al pomeriggio, parte da Domodossola alle 11.30 per essere lì alle 13.30, con un turno che si conclude tra le 21 e le 22.30. “Questo significa trascorrere 12-13 ore fuori casa” – spiega Carmelo – “All’andata si guida tranquillamente ma al ritorno, dopo aver lavorato per 8 ore e più, è dura mettersi al volante”. Carmelo, infatti, da quando ha iniziato questo nuovo lavoro, viaggia in macchina e non è scontato dire che per guidare bisogna essere concentrati. Forse gli andava meglio quando lavorava nel Vallese e si spostava in treno, partendo al mattino alle cinque e tornando la sera alle sette. Però, come ci ha raccontato, anche il viaggio in treno ha i suoi inconvenienti: “L’abbonamento si aggira intorno ai 250 franchi, spesso non c’è posto per tutti e si viaggia in piedi, d’estate il treno è un forno”.
Nel posto in cui lavora, su oltre 600 persone almeno 400 sono italiani, provenienti soprattutto dalle provincie di Como e Varese. Tra i frontalieri spesso si instaura un rapporto di solidarietà perché, come dice Carmelo, “si è tutti sulla stessa barca”: “Siamo tutte persone con una famiglia o con un mutuo da pagare e quindi disposti a fare sacrifici”. Forse è per questo che a volte per gli svizzeri è più facile approfittarsene. Carmelo crede infatti che in quest’ultimo periodo, con un aumento della richiesta di lavoro da parte degli italiani, la situazione sia peggiorata anche da un punto di vista contrattuale. “Ora sono in voga i contratti tramite agenzia. Sono dei contratti aperti: ti assumono quando hanno bisogno e poi, con un mese di preavviso, ti possono lasciare a casa”. Con l’agenzia, inoltre si prendono 1000 franchi in meno. “E questo funziona per tutti gli italiani” spiega Carmelo che ha lavorato nello stesso posto anche 3 anni fa, con la differenza che lo stipendio era più alto di 800 franchi. Sicuramente il lavoro in Svizzera è più organizzato: “Il materiale non manca mai, in Italia capita frequentemente che ti devi arrangiare”. Ma a volte ci si sente discriminati: “Per esempio quando piove gli italiani lavorano ai piani alti sotto l’acqua, mentre gli svizzeri stanno in basso al coperto” – racconta Carmelo – “E quando c’è un calo di lavoro i primi che pagano sono i frontalieri”. Per Carmelo la colpa è da attribuire anche alle vecchie generazioni di frontalieri, che non hanno pensato alle conseguenze future delle loro azioni: “Pur di non perdere il lavoro strafacevano”.